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lunedì 18 settembre 2017

Busiate al sugo di mare con tartare di scampi e maionese di polpo


Settembre è arrivato e ha portato con se' la frenesia sul lavoro e la ripresa dell'MTChallenge.
Confesso che guardavo a questa ripresa con timore e tremore: quest'anno infatti una serie di vicissitudini familiari e professionali mi hanno impedito di partecipare (sarebbe più corretto dire che mi hanno tolto tutta la voglia di cucinare) e il mio timore era che, dopo un periodo così lungo di inattività, le mie cellule grigie non fossero in grado di elaborare nulla che fosse degno di esservi legato. A dire il vero avevo fatto un timido tentativo in marzo con le terrine e in aprile con il sartù, ma non c'è stato niente da fare: partecipare all'MTC richiede cuore e cervello, e quando hai problemi sul lavoro e perdi due amatissimi zii nel giro di pochi mesi, cuore e cervello stanno da un'altra parte.

In settembre riprendo, mi son detta, e mi sono trovata a confrontarmi con quel mostro sacro di Cristina Galliti del blog Poverimabelliebuoni/Insalata Mista, un'autorità in fatto di pesce (specialmente di pesce azzurro), che ci ha sfidati sulle paste di pesce. Andatevi a leggere il suo magnifico post: è un autentico trattato e per me costituisce materia di studio da qui a quando avrò provato tutte le ricette che ci propone, con le relative tecniche!


Cristina ha aumentato il mio timore di non riuscire a elaborare una ricetta all'altezza dells'MTC, e durante i primi giorni ho temuto di non farcela: le cellule grigie erano letteralmente paralizzate, e non riusciva a venirmi neanche un'idea. Poi, giovedì scorso, un puntino ha cominciato a emergere dalla nebbia e si è via via delineato: Antonino Cannavacciuolo.

Cannavacciuolo è uno Chef che sto tenendo d'occhio da qualche anno: mi piace molto la sua cucina, così come mi piace la sua umanità. Già 4 anni fa avevo replicato una sua ricetta per un MTChallenge, e questa volta è affiorato il ricordo di un suo antipasto che avevo visto l'anno scorso: gli scampi alla pizzaiola, che comprendevano una maionese di polpo che mi ero ripromessa di provare.
Certo, quello era un antipasto e io lo dovevo rielaborare in chiave di primo piatto; non mi restava che provare a prepararli, per capire quali elementi salvare e quali scartare, per la mia pasta di mare. Olive e origano erano perfetti con la pizzaiola, ma non erano adatti a una pasta di mare, mentre invece gli scampi, magari ridotti in tartare, e la maionese di polpo, erano sicuramente gli elementi attorno ai quali lavorare.

Sul formato di pasta non avevo alcun dubbio: avrei preparato le busiate trapanesi, un formato di pasta che ho sempre gustato con sughi allo scoglio. La scelta del crudo di scampi invece mi ha posto un problema: a cosa affidare il sapore di mare della mia pasta? Sicuramente alla bisque, ma che altro? Magari l'acqua di cottura del polpo rimasta dalla maionese? Temevo che il suo gusto troppo forte prevaricasse su quello delicato della tartare di scampi. Mi ci voleva qualcosa di più delicato, ma inconfondibilmene marino, come... ecco, mi stavo domandando se... ma certo! Il fumetto di pesce! Forse usarlo per lessare la pasta era un po' uno spreco, eppure l'idea mi tentava, in ogni caso dovevo prepararlo per fare la bisque, e quindi...

Da lì in poi tutto è stato facile: ho sempre trovato deludenti i sughi di mare a base di cipolla o scalogno, perché abituata al gusto più deciso che l'aglio rosso di Nubia - altra eccellenza del territorio trapanese - conferisce ai sughi di mare, e quindi l'aglio ci doveva essere, tanto aglio. E poi la primavera scorsa avevo comperato delle piantine di peperoncini Jalapeño, che avevano dato una produzione abbondantissima: al rientro dalle ferie li ho raccolti ed essiccati in forno, perché non marcissero e potessero durare tutto l'anno. Certo, il crudo di scampi imponeva che il piccante non fosse troppo pronunciato, però un pochino ci stava e anzi, il mio palato lo reclamava!

Insomma, una volta che il neurone si è messo in moto, il resto è venuto da se', così sabato mattina ho lasciato la sveglia alle 6:15 e sono andata prestissimo al mercato, dove la bancarella dell pesce da cui mi servo era già attiva. Ho comperato il polpo e gli scampi, e ho chiesto che mi tenessero da parte le lische dei pesci bianchi che avrebbero sfilettato in mattinata. Quando sono tornata a mezzogiorno e mezzo, ho scoperto di essere stata fortunatissima: avevano sfilettato una ricciola enorme, di cui mi hanno dato testa e lisca, ricchissime di polpa, la migliore premessa per un fumetto da urlo! Ho deciso di tenere gli aromi al minimo, per esaltarne il gusto delicato. E insomma, questo è il risultato delle mie elucubrazioni mentali:



sabato 16 settembre 2017

Busiate trapanesi



Le busiate sono un formato di pasta tipico della provincia di Trapani, e che io naturalmente adoro. 😄
Si tratta di una pasta di semola di grano duro appartenente alla famiglia dei maccaruna, i maccheroni al ferretto, e di solito viene condita con il pesto alla trapanese, oppure con sughi di mare.

E' in quest'ultima versione che io le ho mangiate più spesso, e da brava amante del pesce non faccio mai trascorrere un'estate mazarese senza gustarle. Di solito ne compero un paio di confezioni da portare a casa ma quest'anno non l'ho fatto, perché avevo intenzione di cominciare a prepararmele da sola. 😉

Le busiate devono il loro nome al bastoncino attorno al quale vengono avvolte durante la loro preparazione, la busa, cioè lo stelo dell'Ampelodesmos Mauritanicus, una pianta graminacea tipica della prateria mediterranea, che cresce in terreni aridi e sabbiosi. Anticamente gli steli molto resistenti di questa pianta venivano usati dai fabbricatori di ceste come stecche per il fondo dei crivelli, arnesi adoperati per setacciare semola e farina, mentre dalle foglie tenaci si ricava tutt'oggi un materiale fibroso utilizzato per fabbricare cordami e stuoie o per impagliare le sedie. L'Ampelodesmos è diffuso nelle zone costiere di tutti i Paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo; in Italia è presente nei litoranei aridi del Centro-Sud, in Sicilia e nelle coste della Liguria; proprio la sua diffusione giustifica i vari nomi con cui è conosciuto nel nostro Paese: erba sparta, liami, disa, cernicchiara, sarracchio, gutumara, lisara, cannoria, tunnara...

E se non abbiamo uno stelo di Ampelodesmos? Niente paura, possiamo usare uno spiedino di legno, o anche un ferro da calza della misura 2½. Tra l'altro c'è una seconda ipotesi circa le origini del nome delle busiate ed è il buso, un particolare ferro da maglia che era usato nel trapanese per lavorare lana e cotone. Io però propendo per la prima ipotesi che ho illustrato, che rende ragione dell'industriosità umana e della sua capacità di trarre il massimo da ciò che ha a disposizione.

Ma bando alle ciance, passiamo alla ricetta!

mercoledì 6 settembre 2017

Pasta alla Norma con pesce spada - Giornata Nazionale di Montalbano



Oggi il Calendario del cibo italiano dedica una Giornata Nazionale al Commissario Montalbano, fortunato personaggio nato dalla fantasia di Andrea Camilleri, per festeggiare il 92° compleanno del suo Autore.

Antieroe per antonomasia - è letteralmente terrorizzato dalla prospettiva di una promozione sul lavoro - il Commissario Salvo Montalbano ha una passione per il buon cibo che rasenta la venerazione, e che fa parte del personaggio tanto quanto il suo intuito e il suo acume investigativo.

Il rapporto con il cibo è sintomatico del rapporto che abbiamo con la vita, e in Montalbano questo concetto salta immediatamente all'occhio: ne Il cane di terracotta, quando il Commissario si sveglia in ospedale dopo una sparatoria e si trova alimentato tramite un sondino naso-gastrico, sperimenta un vero e proprio horror vacui quando gli pare di capire che la ferita abbia compromesso le sue capacità digestive: Ma se aveva a che fare con la panza, questo stava a significare che - e sobbalzò tanto forte che i medici se ne accorsero - da quel momento in poi e per tutto il resto della vita sarebbe dovuto andare avanti a pappine?
"... pappine?" fece finalmente la voce di Montalbano, l'orrore di quella prospettiva gli aveva riattivato le corde vocali.
"Che ha detto?" spiò il primario volgendosi ai suoi.
"Mi pare abbia detto scarpine" disse uno.
"no, no, ha detto rapine" intervenne un altro.

Il cibo è sacro e va gustato come merita: sempre ne Il cane di terracotta, Montalbano riflette:
Gli piaceva mangiare da solo, godersi i bocconi in silenzio, fra i tanti legami che lo tenevano a Livia c'era magari questo, che quando mangiava non rapriva bocca.

Ne Il ladro di merendine la sacralità del cibo è ancora esplicita:
Portò alla bocca il primo boccone, non l'ingoiò subito. Lasciò che il gusto si diffondesse dolcemente e uniformemente su lingua e palato, che lingua e palato si rendessero pienamente conto del dono che veniva loro offerto.

Ancora Il cane di terracotta:
"Vossia sta mangiando senza intinzioni. " 
"Vero è, il fatto è che ho un pinsèro."
"I pinsèri bisogna scordarseli davanti alla grazia che u Signuri le sta facendo con queste spigole" disse solennemente Calogero allontanandosi.

Per fame e per vendetta verso Livia, si fece una mangiata da chiamare il medico. (Ibidem).

La cucina gustata da Montalbano è quella siciliana classica, che si cucina in famiglia: dalla tinnirume e triglie di scoglio a oglio e limone che gli offre la moglie del preside Burgio alla pasta 'ncasciata che gli fa trovare Adelina in forno, i sapori che il Commissario cerca sono quelli tipici della sua terra: quando va a pranzo dal Vicequestore di Mazara del Vallo Valente , la cui moglie è nata a Sestri, non riesce ad apprezzarne la cucina:
Un poco meno simpatica la signora riuscì a Montalbano per via della pasta indegnamente scotta, dello stracotto concepito da una mente chiaramente malata, del caffè che manco a bordo degli aerei osavano propinare.
Confesso che leggere questo passaggio e sorridere pensando a mia nonna, è stato un tutt'uno: Nonna Sara mangiava solo Pecorino ed era solita dire che il Parmigiano non sa di niente.

La ricetta che segue è una variante della pasta alla Norma, che prevede l'aggiunta del pesce spada. E' diffusa in tutta la Sicilia, e se la Norma classica si può definire un piatto da tutti i giorni, quella al pesce spada è il piatto della domenica: l'ho gustato diverse volte dai miei zii, e come tutti i piatti di tradizione che si rispettino, ogni famiglia ha la sua versione.
Per avere dosi più precise mi sono riferita a un libro, ma ho apportato qualche variante alla ricetta e specificato meglio i vari passaggi, cui l'autrice accenna solo sbrigativamente.

Ma cosa pensa Salvo Montalbano della pasta alla Norma? Camilleri ce lo spiega ne Il ladro di merendine, quando il Commissario è invitato a pranzo da una donna anziana e paralitica:
"Perché non resta a mangiare con me?"
Montalbano si sentì impallidire lo stomaco. La signora Clementina era buona e cara, ma doveva nutrirsi a semolino e a patate bollite.
"Veramente avrei tanto da..."
"Pina, la cammarera, è un'ottima cuoca, mi creda. Oggi ha preparato pasta alla Norma, sa, quella con le milanzane fritte e la ricotta salata."
"Gesù!" fece Montalbano assittandosi.
"e per secondo uno stracotto".
"Gesù!" ripetè Montalbano.
"Perché si meraviglia tanto?"
"Non è un mangiare tanticchia pesante per lei?"
"E perché? Io ho uno stomaco che non ce l'ha una picciotta di vent'anni [...]. Macari lei è dell'opinione di mio figlio Giulio?".
"Non ho il piacere di conoscerla".
"Dice che alla mia età non è dignitoso mangiare queste cose. Mi considera un poco svergognata. Secondo lui dovrei andare avanti a pappine. Allora che fa, resta?".
"Resto" fece deciso il commissario.

giovedì 27 luglio 2017

Pasta alla Norma in versione gourmet: Lumaconi con crema di melanzane su fonduta di ricotta salata


Oggi il Calendario del cibo italiano celebra la Giornata Nazionale della pasta alla Norma.
Piatto tipico della tradizione culinaria siciliana, forse addirittura il più noto, si prepara con ingredienti semplici, a portata di tutte le massaie siciliane; proprio per questo, è essenziale curare al massimo la qualità degli ingredienti.

Le origini del nome del piatto, che probabilmente era già ampiamente noto da tempo in Trinacria, risalgono al 1920, quando il commediografo catanese Nino Martoglio, a cena insieme ad alcuni amici, di fronte a un piatto di spaghetti con salsa al pomodoro, basilico, melanzane fritte e ricotta salata, esclamò: "Chista è ‘na vera Norma!".
Chiarissimo il riferimento al capolavoro del grande compositore Vincenzo Bellini, la cui Norma, mal compresa dai catanesi, ottenne il successo che meritava in occasione della Prima alla Scala, e da lì conobbe un enorme successo internazionale.

Il mio fido libro Sicilia in bocca di Antonio Cardella, riporta la ricetta in dialetto siciliano:

Dal libro Sicilia in bocca di Antonio Cardella
Per onorare la Giornata Nazionale di questo delizioso piatto, io oggi propongo la mia versione gourmet.

sabato 22 luglio 2017

GIORNATA NAZIONALE DELL’ARANCINA


Oggi il Calendario del cibo italiano celebra la Giornata Nazionale dell'Arancina (o Arancino), il cibo di strada siciliano più noto in Italia e nel mondo.

Io ovviamente le adoro, ma le mangio solo in Sicilia: nel freddo Nodd decisamente non le sanno fare, il riso è sempre scotto e il risultato è invariabilmente deludente.

Mi sono divertita a tracciare la storia di queste delizie, e ho scoperto che non ci sono notizie certe sulla loro data nascita, né si può citare il cuoco che le abbia inventate, e quindi prima di passare alla ricetta, vi tedio con un po' di storia. 😄 Ovviamente, se preferite passare subito alla ricetta avete tutta la mia comprensione. 😏

Secondo l’ipotesi più diffusa, che parte dall’analisi degli ingredienti, l'origine delle arancine risale all’Alto Medio Evo, durante l’occupazione araba, che influenzò la storia e i costumi, anche alimentari, della Terra dei miei avi.
Agli arabi infatti si deve l’introduzione del riso speziato, aromatizzato con zafferano e servito in un grande piatto al centro della tavola, accompagnato da bocconcini di carne e verdure; i commensali si servivano direttamente dal piatto di portata, prendendo con le mani un po’ di riso e condendolo con carne e verdure. In seguito l’emiro Ibn at-Timnah inventò il timballo di riso, e da lì a creare dei timballi monoporzione il passo fu breve.
Il ripieno a base di ragù di carne risale alla dominazione Normanna, mentre sembra che la panatura sia stata inserita per accontentare Re Federico II di Svevia, che voleva gustare i timballi di riso anche in viaggio e durante le battute di caccia. Tale ipotesi quindi definisce le arancine come una felicissima sintesi delle varie influenze storiche dell’Isola. Perfino il loro nome, arancine, viene fatto risalire alla cultura araba antica: nel mondo arabo infatti, tutte le polpette tondeggianti prendevano il nome dalla frutta a cui somigliavano per forma e dimensioni.

Esiste però anche una seconda ipotesi sulle origini delle arancine, alimentata dal fatto che la preparazione viene menzionata per la prima volta nella seconda metà del XIX secolo: secondo alcuni, questo farebbe pensare che la loro origine sia molto più recente. A ciò si aggiunga che il primo dizionario siciliano-italiano che registra la parola arancinu, quello di Giuseppe Biundi, è datato 1857 e descrive una vivanda dolce di riso dalla forma della melarancia. I passaggi dal dolce al salato non sono infrequenti nella storia gastronomia, e infatti il Nuovo vocabolario siciliano-italiano del Traina, edito una decina di anni più tardi, alla voce arancinu rinviava a crucchè, "specie di polpettine gentili fatte o di riso o di patate o altro".
Nei documenti sopra citati non sono mai menzionati né la carne né il pomodoro, e in effetti è difficile dire quando questi due ingredienti siano entrati nella ricetta: del pomodoro tra l’altro, si sa che cominciò a essere coltivato nel Sud Italia solo all’inizio dell’Ottocento.
Alla luce di questi fatti, l'origine araba delle arancine non sembra più così certa, mentre si potrebbe pensare che si tratti di un piatto nato nella seconda metà del XIX secolo come dolce di riso, trasformato quasi subito in una specialità salata.


Se le origini dell’arancina sono incerte, certa però è la derivazione del nome: le prime arancine, ripiene di ragù e piselli, avevano la forma tonda e il colore dorato delle arance. Col tempo i ripieni si sono differenziati, e con essi anche le forme, per poter distinguere i preziosi scrigni di cibo uno dall’altro: quelle al ragù sono rimaste tonde in Sicilia occidentale (nella parte orientale dell'Isola invece hanno forma conica, in omaggio all’Etna), mentre quelle al burro sono ovali. Ai due gusti classici, l’inventiva e le tradizioni delle varie città ne hanno affiancati altri: a Catania sono famose quelle alla Norma, con melanzane fritte, salsa di pomodoro e ricotta salata, e quelle al pistacchio di Bronte; le varianti sono una trentina e il loro numero è destinato ad aumentare, grazie alla fantasia dei cuochi e alla reperibilità di ingredienti non originari della Sicilia.
Altre differenze tra la parte occidentale e orientale dell'Isola riguardano la colorazione del riso delle arancine: nella Sicilia occidentale il giallo è dato dallo zafferano, mentre in quella orientale è dovuto al sugo di pomodoro.

A Palermo il giorno di Santa Lucia ne viene preparata anche una versione dolce, farcita con crema gianduia e spolverata di zucchero al velo. A Modica la versione dolce prevede un ripieno del cioccolato per cui la città è giustamente famosa.

Finora ho parlato di arancine al femminile, ma nella bella Trinacria la questione del genere è tutt’ora aperta. Secondo l’Accademia della Crusca entrambe le forme sono accettabili: il genere infatti è determinato dall’uso diatopicamente differenziato. In parole povere, 😊 nel dialetto siciliano il frutto dell’arancio è aranciu, che nell'italiano parlato diventa arancio: nella lingua italiana ufficiale invece, vi è la distinzione di genere: femminile per i nomi dei frutti e maschile per quelli degli alberi. Tale distinzione è invalsa solo nella seconda metà del Novecento, e ha influenzato anche la denominazione della pietanza siciliana.
I due generi sono accettati, come attestano anche i dizionari della lingua italiana: lo Zingarelli nel 1917 definisce arancina un pasticcio di riso e carne tritata, e anche il Panzini del 1927 riporta il termine arancina. E’ solo nel l’edizione del 1942 che il Panzini usa arancino al maschile, e non bisogna dimenticare che le due varianti arancio e arancia coesistono, con una prevalenza del femminile nell’uso scritto e una maggior diffusione del maschile nelle varietà regionali parlate di gran parte della penisola. Il femminile tuttavia è percepito come più corretto, almeno nell’impiego formale, perché l’opposizione di genere come abbiamo visto è tipica nella nostra lingua, per differenziare l’albero dal frutto.
Questa ipotesi sarebbe confermata dall’unica attestazione delle arancine che si trova nella letteratura di fine Ottocento, I Vicerè del Catanese Federico De Roberto: "arancine di riso grosse ciascuna come un mellone". Anche Corrado Avolio, nel suo Dizionario dialettale siciliano di area siracusana (un manoscritto inedito della Biblioteca Comunale di Noto, compilato tra il 1895 e il 1900 circa), parla di arancina; è solo dopo il 1942 che nei dizionari è prevalso il termine al maschile.
Probabilmente il prestigio del codice linguistico standard, verso cui sono sempre state più ricettive le aree urbane, ha portato a Palermo la prevalenza della forma femminile su quella maschile per il frutto, e di conseguenza anche per lo scrigno di riso.

Fonti:

Mangiarebuono.it
TaccuiniStorici.it
Accademia della Crusca on line

E adesso, se ancora non vi siete addormentati, passiamo alla ricetta, una mia creazione.

lunedì 17 luglio 2017

Sgombri in scapece


Immagine tratta dal libro Tapas Revolution

Ci sono ricette che fai spessissimo, senza che ti venga mai la voglia di fotografarle.
Un po' perché non sono facili da ritrarre, un po' perché la tua abilità fotografica è decisamente scarsa, e un po' per pigrizia. Devo dire che la pigrizia qui è motivata dalle altre due motivazioni: già gli sgombri in scapece sono difficili da rendere bene, io non sono una grande fotografa e in più, sì, mi manca un prop importante: il piatto di servizio arancione e rosso fuego usato dal fotografo del libro: perché diciamocelo, senza quel piatto di servizio, anche la foto del libro tutto sommato non sarebbe stata un granché. 😉

Sabato mattina, andando al mercato dal mio banco del pesce di fiducia intenzionata a comprare solo cozze, non ho saputo resistere alla tentazione degli sgombretti che mi facevano l'occhiolino dal loro letto di ghiaccio. "Chissà che non mi venga la voglia di fotografarli, questa volta?", mi sono detta, mentre infrangevo la mia ferrea determinazione e aggiungevo alle cozze dei tranci di tonno e, appunto, gli sgombretti. Solo quattro, mi sono detta; dieci, ne ho portati via, e li ho cucinati tutti in scapece, triplicando le dosi della ricetta di quel bel figliuolo di Omar Allibhoy, che tanto mi era piaciuta fin dalla prima volta che l'avevo provata.
E no, non li fotografo neppure questa volta. Me li mangio e basta, però la ricetta questa volta la pubblico. 😁

mercoledì 1 febbraio 2017

Sfoglia lorda ai funghi porcini in brodetto di castagne


Ci sono ricette di cui ci si innamora all'istante, ma che sono impegnative: entrano nella nostra to-do list, ogni tanto ci tornano in mente, ma vengono scavalcate da altre priorità, che si sovrappongono, e rimangono ad alto rischio di dimenticatoio.
Per fortuna c'è The Recipe-tionist, un contest grazie al quale oggi riesco a fare per la prima volta una ricetta di cui mi ero innamorata nel 2013, ai tempi dell'MTChallenge sulle castagne. E'stata una delle sfide più belle a cui io abbia partecipato, e quando ho letto questa ricetta di Patty mi sono detta: questa vince!
Non ha vinto la gara, ma ha certamente vinto un posto nel mio cuore, e ora che l'ho preparata... anche nel mio personale olimpo delle migliori ricette che abbia mai realizzato.

E' quindi con grande orgoglio che vi presento una delle ricette di Patty più riuscite: la sfoglia lorda in brodetto di castagne. E' sicuramente un piatto impegnativo, ma non vi pentirete di averlo fatto: è favoloso.
Siccome non siamo più in stagione di castagne, mi sono dovuta accontentare di quelle secche, che ho ammollato per una notte e lessato un'ora in pentola a pressione prima di unirle al brodetto. Quando torneranno le castagne voglio rifarlo con quelle fresche.
Del pari, non ho trovato il prosciutto arrosto e l'ho sostituito con la porchetta: sublime!
Un piatto da rifare, sicuramente: è molto sostanzioso e perfetto per le cene invernali.


lunedì 23 gennaio 2017

La Ribollita di Patty, un piatto che scalda il cuore


Sono stata felicissima di apprendere che la mia amica Patty ha vinto The Recipe-Tionist di dicembre, ma a dire il vero non avevo bisogno di questa ulteriore opportunità per andare a curiosare nel suo blog: lo consulto spesso quando sono alla ricerca di ricette di tradizione toscana, e anche se difficilmente lascio commenti, è uno dei miei blog di riferimento.
Va anche detto che spesso mi capita di non pubblicare le ricette che prelevo da libri o da altri blog per il semplice motivo che non mi piace fotografare, e poi la fame l'ha sempre vinta sulla mia pigrizia! Insomma, lo spirito è pronto ma la carne è debole, e forse proprio a questo mi è servito questo The Recipe-Tionist: a fotografare una delle ricette di Patty che faccio più spesso: la Ribollita.

La Ribollita è uno di quei piatti che quando li assaggi ti chiedi come mai non l'abbia fatta prima. Adoro prepararla nelle fredde giornate di inverno perché la sua preparazione mi rimanda ai gesti antichi di tante massaie, che preparavano amorevolmente la zuppa per la loro famiglia. E' un piatto nutriente e completo di tradizione contadina, risalente a un'epoca dove lo spreco alimentare era inconcepibile e tutto veniva riutilizzato, nei limiti del possibile: se infatti del maiale non si butta via niente, anche degli altri alimenti si sfrutta il massimo del potenziale. Qui abbiamo l'utilizzo del pane raffermo, che fornisce i carboidrati del pasto; i fagioli regalano l'apporto proteico e le verdure danno fibre, vitamine e sali minerali. Gustare la Ribollita al termine di una giornata di lavoro è un gesto che ha il potere di riappacificarmi con il mondo intero e di farmi sentire un tutt'uno con le generazioni passate: scalda il cuore, oltre al corpo.

Un ingrediente molto importante della Ribollita è il pane toscano: è fondamentale usare quello per due motivi: il suo metodo di lavorazione fa sì che non diventi una pappa quando è messo nella ribollita, e l'assenza di sale è perfetta per accompagnare questa sapida zuppa toscana. Se appena potete cercatelo o fatevelo, diversamente scegliete un buon pane casereccio a lievitazione naturale.

Quando compro la verdura, noto spesso che la gente ha la pessima abitudine di defogliare gli ortaggi; posso capire quando le foglie esterne sono rovinate e appassite, ma con le verze ad esempio trovo spesso tante foglie esterne (quelle più ricche di ferro!) bellissime, che sono state scartate. Se devo fare la Ribollita compero proprio queste: da un lato sono più ricche di sali minerali di quelle interne più chiare, e dall'altro è il modo più sicuro di acquistare la quantità giusta: 300 g di verza equivalgono più o meno a 6 foglie grandi, mentre la verza più piccola che trovo pesa circa 1,4 kg: decisamente troppo. Sono un po' matta? E' possibile.

Le dosi che seguono sono solo indicative e servono a dare le proporzioni tra i vari ingredienti: difficilmente una volta si pesavano le verdure al grammo!


martedì 13 dicembre 2016

Arancine nere per la Giornata Nazionale delle Arancine


Oggi, giorno di Santa Lucia, il Calendario del Cibo Italiano festeggia la Giornata Nazionale delle Arancine, di cui sono l'orgogliosa ambasciatrice.
A Palermo e in molte città della Sicilia, è tradizione astenersi da pane, pasta e farinacei, a favore della cuccìa (grano lesso, condito con un filo di olio extravergine di oliva), delle panelle e delle arancine, le regine del cibo di strada siciliano.

La storia di queste meraviglie della rosticceria della mia terra si trova qui; io vi lascio una ricetta che ho elaborato qualche anno fa in occasione dell'MTChallenge di cui sono state protagoniste qualche anno fa.

giovedì 10 novembre 2016

Il Birramisù di Betty Boop


Correva l'anno 2010, avevo aperto il blog da un paio di mesi e, scoprendo per caso la ricetta del Birramisù dello Chef Claudio Sadler, avevo deciso di prepararla.
Risultato: strepitoso, una variante del Tiramisù classico veramente azzeccata, e in più diversa dalle decine di birramisù che intasano la rete, tutte uguali e tutte banali e piatte.

A 6 anni di distanza quella pazza scatenata di Susy May vince l'MTChallenge sbaragliando la Community con le sue Un, dos, Trek, Tapas! e su che cosa ci sfida, questo mese? Sul Tiramisù! 


Ma la nostra non si accontenta di un Tiramisù, che già per una chiavica con i dolci come me non è cosa facile pensarne uno, no: pure il tema ci ha imposto.  Considerato che il Tiramisù e’ uno dei dolci piu’ voluttuosi del pianeta e considerata la grande passione per il Cinema che anima lei e suo marito, perché non legare il vostro Tiramisù ad un film o ad una incona sexy della storia del Cinema Mondiale? Così recita il regolamento, e a quel punto io vado totalmente in tilt.
Studiare un Tiramisù diverso, a questo posso anche arrivare; ma il tema? Espresso per giunta in una interpretazione fotografica? Io e le foto siamo pianeti diversi, io e i dolci siamo pianeti diversi, e anche il tema va interpretato con garbo, evitando di scadere nella (facile e acchiappavisite) volgarità.

Stavo per rinunciare, quando dai recessi della memoria mi si è affacciato un ricordo di quando ero bambina: Betty Boop.

Immagine dal web
Garbatamente sexy, è considerata come una dei primi e più famosi sex symbol dell'animazione cinematografica: la sua carica erotica imprevedibile irruppe nel panorama dell'animazione americana degli anni '30 del secolo scorso. Ragazza alla moda, irriverente e con un taglio di capelli maliziosamente mascolino, indossa un vestitino succinto che lascia scoperte le spalle e la giarrettiera, e pare più che consapevole del suo sex appeal, ma è fornita di una buona dose di auto-ironia.

Il suo personaggio compare per la prima volta nel 1932 nel cartoon di Dave Fleischer, Bamboo Isle, e sarà seguito da altri cortometraggi animati, fino a quando la morale puritana dell'epoca non bandirà il personaggio, nel 1934.

Bene, l'ispirazione c'era; la ricetta che mi è venuto spontaneo reinterpretare è proprio quella citata sopra: il Tiramisù alla birra (o Birramisù) di Claudio Sadler. Ora non mi rimane che rivisitare la ricetta dello Chef (lui usa la colla di pesce, che nella nostra sfida è bandita, ma non adopera gli albumi; lui usa i brownies come base, io devo usare i savoiardi) aggiungendo un richiamo a Betty Boop, sì, ma quale? Idea! La sua famosa giarrettiera! Ho provato a farne una di cioccolato, con esiti che vedete anche voi. D'altra parte l'avevo detto, no, che con i dolci sono una chiavica?

lunedì 3 ottobre 2016

Tagliatelle di farina di fiocco di avena con melanzane, pesce spada e mandorle


Immaginate di aver trascorso una splendida estate.
Non che abbiate fatto questo granché, ma essere circondati dalla propria famiglia (genitori, fratelli, sorelle, zii, cugini e nipoti), rivedere vecchi amici, godervi il vostro amatissimo mare, tutto questo e altro ancora vi hanno colmato il cuore di letizia e di gratitudine per quello che avete, e la vostra estate è stata splendida.
Tanto splendida, che non siete ancora pronte per l'autunno. Le scarpe chiuse vi stanno strette in tutti i sensi e i vostri piedi continuano a reclamare ancora un giorno di libertà, prima di essere costretti al chiuso per tanti lunghi mesi. Magliette, camicie ed abiti a maniche corte continuano a occhieggiare dal vostro armadio, anche se oramai le temperature non permettono più di indossarli.
L'abbronzatura se ne è andata, la voglia di vacanza e di relax invece permane, e in cucina cercate piatti che vi ancorino saldamente al tempo meraviglioso che avete trascorso con chi amate.

Adesso immaginate che nel mezzo di questa atmosfera, un terremoto professionale ed emotivo arrivi e vi sconvolga all'improvviso: il Direttore Vendite che avete tanto apprezzato negli ultimi anni lascia l'azienda in circostanze tempestose; si comporta in modo ineccepibilmente professionale fino alla fine, ma voi che lo conoscete bene gli leggete nell'animo la tristezza e ne ammirate la grande forza d'animo, e al contempo siete tristi per lui e preoccupati per voi.
A questo sconvolgimento aggiungete una serie di impegni nel fine settimana e di cene di lavoro in settimana, che vi lasciano prostrati fisicamente e che fanno della vostra memoria un frappè liscio, omogeneo e senza grumi: tante idee, tutte squisitamente confuse.

Se vi siete immedesimati fino a questo punto, capirete come mai io sia così stanca da aver saltato il mio amato MTChallenge; di più: volendo partecipare al The Recipe-tionist della mia amica Flavia, vinto da Lidia, ho spulciato il blog di quest'ultima in lungo e in largo, ho trovato una ricetta che volevo assolutamente provare e l'ho cucinata esattamente il giorno dopo che il contest è terminato. Me ne sono accorta solo al momento di scrivere il post, che in ogni caso sarà pubblicato due giorni dopo, e mi sono sentita una perfetta idiota. Lidia e Flavia mi perdoneranno di sicuro e si faranno una bella risata. :-)

Ma che cosa mi ha spinto a provare proprio questa ricetta, tra le tante proposte da Lidia?
Il suo sapore di estate, di vacanze e della mia amata Sicilia.
Sì, perché il connubio melanzane-pesce spada-mandorle è un classico nella bella e antica Trinacria, e non può che farmi sognare di essere ancora laggiù, a gustarmi questo piatto gustoso seduta in una terrazza con vista sul mare.

sabato 17 settembre 2016

Giornata Nazionale del Cuscus

Foto di Juri Badalini
Sapevate che il Cuscus è un piatto di origine berbera? O che il suo nome probabilmente deriva dal suono emesso dai braccialetti delle donne berbere quando lo incocciano con movimenti circolari della mano?

Queste ed altre curiosità sulla storia millenaria di questo piatto le trovate sull'articolo che ho scritto sul sito dell'Associazione Italiana FoodBlogger, dato che ho avuto l'onore di esserne l'Ambasciatrice nella Giornata Nazionale dedicatagli dal Calendario Italiano del Cibo.

L'articolo riporta anche i link di altre ricette di Cuscus pubblicate da altri Soci AIFB: leggete anche quelle, sono tutti contributi validissimi per celebrare un piatto che è stato il fondamento di tante popolazioni del bacino del Mediterraneo.

Mi è gradita l'occasione per ringraziare Juri e Dani del blog Acqua e Menta, per la gentile concessione delle loro foto strepitose (che le mie, si sa, sono un tantinello lassative :-) ).

Buon Cuscus a tutti!

venerdì 2 settembre 2016

Spaghetti Cacio e Pepe su crema di fave al pecorino per la GIORNATA NAZIONALE DEL CACIO E PEPE



Oggi 2 settembre è la Giornata Nazionale della pasta Cacio e Pepe, per il Calendario Italiano del Cibo, la cui ambasciatrice è la mia amica Giulietta Bodrito.
Vi prego in ginocchio di andare a leggere il post che ha scritto in occasione della Giornata Nazionale: il senso del Calendario Italiano del Cibo infatti è quello di valorizzare piatti della nostra tradizione culinaria, che vanta secoli di storia e autentiche leccornie, e Giulietta ha fatto davvero un gran lavoro.

 La ricetta che vi presento oggi era già stata pubblicata, leggermente in ritardo sulla stagione delle fave: in realtà l'avevo cucinata e fotografata un paio di mesi prima, ma l'avevo pubblicata dopo. La ripubblico volentieri oggi, in occasione della Giornata Nazionale della pasta Cacio e Pepe.

La storia della pasta Cacio e Pepe è quanto di più umile si possa immaginare: parla di pastori che si devono allontanare da casa per mesi, durante la transumanza delle greggi; parla di cibi rustici, semplici e genuini che portavano con se' nella bisaccia: il pecorino, ricavato dal latte delle greggi che curavano, la pasta secca, qualche pezzo di lardo per ungere le padelle di ferro e il prezioso sacchetto con i grani di pepe, che scaldavano il corpo durante le lunghe notti passate all'addiaccio.
Cibi semplici e nutrienti insomma, la cui caratteristica principale era la conservabilità nei lunghi mesi trascorsi fuori casa.
Niente di romantico o particolarmente complicato insomma: è la storia di un duro lavoro, comune a molti piatti della tradizione della cucina italiana.

Eppure questo piatto così essenziale non solo è uno dei più antichi e caratteristici della cucina romana, ma è una vera e propria leccornia da gourmet.

Gli ingredienti sono pochi: pasta, Pecorino Romano DOP e pepe nero; devono tuttavia essere di qualità eccelsa, pena un risultato mediocre.

Il primo ingrediente sono gli spaghetti: secondo gli intenditori ci vogliono i n. 5, anche se adesso non di rado si trovano i tonnarelli, spaghetti a sezione quadrata un po' più piccoli rispetto alla chitarra abruzzese.
Il Pecorino da usare è quello Romano DOP, che vanta una tradizione millenaria ed è prodotto secondo un severo disciplinare: nessun altro formaggio garantisce la cremosità caratteristica di questo piatto.
Infine il pepe nero è quello in grani, e va pestato nel mortaio - non macinato! - subito prima di miscelarlo al formaggio grattugiato e a poca acqua di cottura della pasta, perché mantenga intatto tutto il suo aroma.

La ricetta in se' è semplicissima; l'unica difficoltà sta nell'ottenere una crema densa di formaggio e pepe, che avvolga giustamente lo spaghetto senza né filare, né ammassarsi sul fondo del piatto.

Data l'estrema sapidità del formaggio, presente in grandi quantità, io consiglio di lessare la pasta in acqua non salata, per evitare di trovarsi con un piatto immangiabile.

lunedì 4 luglio 2016

Pànera, la versione genovese del gelato al caffè

Foto di Mai Esteve
E' da quando Alessandra mi ha portato, durante una delle mie numerose escursioni genovesi, alla Cremeria Buonafede, che sogno di fare la pànera, quella vera. Perché se a tutta prima sembra un mero gelato al caffè, in realtà è molto di più, ed è una di quelle specialità che, al pari della focaccia e della farinata, costituisce parte integrante della storia gastronomica della città.

Più propriamente la pànera non è un gelato, ma un semifreddo a base di panna, caffè e aromi, nato a Genova nella seconda metà del 1800. Il suo nome deriva dalla contrazione dei termini panna e nera, e indica in origine un dessert a base di panna montata addizionata di caffè e aromi. La ricetta compare per la prima volta nella Cuciniera Genovese di Giovanni Battista Ratto (1893), dove alle pagg. 267-268 è descritta una panna montata, aromatizzata con cannella e caffè. Il procedimento prevede di mettere in infusione il caffè macinato nella panna calda, filtrando poi il tutto attraverso un panno pulito, facendo raffreddare il composto e infine montandolo con le fruste, prima di passarlo nel congelatore.

Collage di 2 pagine, immagine Accademia Barilla
Cercavo dunque da anni la preziosa ricetta, perché nessuna di quelle che trovavo on line mi soddisfaceva. Poi mi è capitato tra le mani il libro di Giovanni Preti, Il gelato artigianale italiano, e mi si è aperto un mondo. Giovanni Preti è un Maestro Gelataio genovese e le ricette dei gelati tratte dal suo libro non mi hanno mai delusa.

Ho scritto più diffusamente sulla Pànera e sul gelato in un articolo pubblicato sulla rivista A Tavola nel settembre 2015; base di quell'articolo è stato un post del mio blog; rimando a entrambi e aggiungo nelle note in calce a questo articolo qualche spiegazione tecnica in più.
Tengo a precisare che la ricetta che pubblico qui è leggermente diversa da quella pubblicata su A Tavola, ed è più aderente a quella originale del Preti.

Non finirò infine di ringraziare Mai Esteve, che ha fatto le foto per il servizio di A Tavola, e che pubblico anche qui.

giovedì 12 maggio 2016

Coniglio ai pomodori secchi


Ve lo ricordate il pandemonio causato da Bigazzi quando diede la ricetta del gatto in umido alla Prova del Cuoco? All'epoca ci fu uno scandalo che costò al povero Bigazzi la presenza alla nota trasmissione, ma io ho subito pensato che si stesse facendo molto rumore per nulla.
Adesso siamo abituati all'abbondanza, ma fino alla prima metà del secolo scorso, quando le proteine scarseggiavano, i gatti venivano mangiati, eccome. Del resto è risaputo che da secoli gli osti spacciavano il gatto per coniglio, e non certo da ieri: nell'Assommoir di Émile Zola, durante il pranzo di nozze di Coupeau e Gervaise, un personaggio fa una battuta su un lapin qui miaulait, un coniglio che miagolava, da tanto questa abitudine era inveterata.

Certo, io non mangerei mai un gatto scientemente, ma non sono pronta a giurare di non averlo mai mangiato, al ristorante. :-)
Tutto questo mi è venuto in mente l'altra sera mentre facevo la spesa: sul banco del macellaio ho visto dei bei conigli fare bella mostra di se', e mi è tornata in mente una discussione divertente fatta su un forum di cucina che frequentavo tanti anni fa, nella quale l'amica Cecilia Deni ci diede una ricetta di gatto ai pomodori secchi, precisando che per realizzarla era possibile usare anche il coniglio: una sorta di inversione della ricetta, in cui il gatto era il protagonista e il coniglio costituiva una possibile alternativa.

Mi permetto di riportare la bellissima premessa di Cecilia, permeata da ricordi d'infanzia.
La ricetta è antica, diceva mia madre che c’erano un tempo gli appassionati del gatto arrosto, che si riunivano apposta per gustare tale prelibatezza. Quando ero bambina ricordo che per un lungo periodo ogni mattina per prima cosa controllavo se il nostro gattaccio semiselvatico era tornato sano e salvo dalle sue scorribande notturne e guardavo con sospetto i clienti della vicina cantina col loro boccale di rosso e la gazzosa davanti. Pensavo che tra loro si celassero, dietro le apparenze innocue degli avvinazzati, i potenziali assassini desiderosi di cannibalizzare il mio peloso amico. Che, tra parentesi, era lui un vero assassino, responsabile accertato della morte violenta di almeno due suoi rivali in amore, nonché, naturalmente di regolari massacri di polli, piccioni, conigli, tutti rubati e accuratamente nascosti e divorati. Alcuni li abbiamo dovuti pagare ai proprietari incavolati, e forse ne abbiamo pagato anche qualcuno in più: si sa, quando uno si fa una cattiva fama si piglia pure le colpe che non ha. Si chiamava Aino, con l'accento sulla A iniziale, vezzeggiato in Ainetto. E mordeva i bambini sconosciuti. Un pessimo soggetto. Noi tutti l'amavamo di un amore, chiaramente, cieco.

Vi propongo oggi la ricetta di Cecilia in versione conigliesca, e con aggiunte le dosi: quella originale, che riporto integralmente nelle note, fa parte delle antiche ricette in cui si parla di coniglio, prezzemolo, aglio, pomodori secchi, vino bianco e aceto di vino bianco, senza precisare né le quantità, né la temperatura del forno, né i tempi di cottura. All'epoca questi pochi dati erano sufficienti, oggi occorre precisare tutto per benino, ed è quello che ho cercato di fare.

lunedì 14 marzo 2016

Brodetto alla siciliana con cuscus al nero di seppia


Comincio subito col chiarire una cosa: nella cucina siciliana il brodetto non esiste. Abbiamo sontuose zuppe di pesce caratterizzate dall'abbondanza del pomodoro, abbiamo il cuscus declinato in diversi modi (alla trapanese, all'eoliana, ericino, etc.), abbiamo una cucina di pesce estremamente ricca e varia, ma di brodetti - intesi come zuppa "di bordo" con base acida, tipici dell'Adriatico - neanche l'ombra.
La cosa, sia chiaro, non mi turba affatto: siamo all'MTChallenge, una sfida dove tutto è possibile, :-) e una frase del post di Anna Maria, vincitrice della scorsa edizione e terzo giudice di questo mese, mi è piaciuta particolarmente e mi ha guidata nell'elaborazione di questa ricetta: "Un piatto che diventa cultura proprio grazie alle infinite contaminazioni e differenze, così che quello che solitamente divide in cucina, lo snocciolare di sterili regole declamate con forza a sottolineare le proprie insicurezze, diventerà un momento di unione. E di trasformazione."


Tradizione e trasformazione: la tradizione (a proposito della quale vi invito a leggere questo articolo di Alessandra) intesa non come vincolo che imprigiona, ma come punto di partenza per cercare qualcosa che la rinnovi, innovandola. Del resto la vita per definizione è evoluzione; la lingua, prima espressione culturale di un popolo, si evolve; usi, costumi, mentalità, tutto cambia alla luce delle diverse condizioni che ci si propongono, e la cucina non è certo esente da questa costante e vitale contaminazione e trasformazione. E uso la parola contaminazione nella sua accezione più positiva, quella di apertura a quanto è diverso da noi e che va vagliato e accolto, nella misura in cui non calpesta la nostra identità.

Ecco dunque che, di fronte a una sfida che mi piace per il solo fatto che amo moltissimo il pesce, ho provato a partire da una ricetta che adoro, il cuscus di pesce, modificando però il procedimento e aggiungendovi una nota acida; il cuscus, che ho scelto come accompagnamento, è stato tinto di nero, quasi vestito in abito da sera, e invece di sgranarlo con la forchetta l'ho compattato in una mattonella, quasi fosse una polentina, scegliendo quello di grana fine (di solito noi usiamo quello medio) e un procedimento diverso proprio per accentuare la differenza tra le due preparazioni. Anche la sua cottura è stata diversa: anziché cuocerlo a vapore nella cuscusiera prima di coprirlo col brodo bollente, ho usato un cuscus precotto che ho coperto di brodo in tre fasi, un procedimento diverso da quello indicato sulla confezione e da quello tradizionale, che ne ha alterato la consistenza.

Il pesce che ho scelto è stata la mia personale interpretazione del pescato del giorno: sono andata dal mio pescivendolo di fiducia e ho scelto tra i pesci che aveva a disposizione sabato. Il primo che ha attirato la mia attenzione è stato uno splendido scorfano: rosso vivido, occhio vivo, era lì che mi diceva "comprami, comprami". Pesciolini di paranza (trigliette, nasellini, soglioline), una seppia nera, canocchie e cozze hanno completato i miei acquisti, ma al momento della presentazione del conto, alquanto salato, ho avuto un mancamento: era davvero tanto. Un attimo di indecisione, due rapidi conti (avevo pensato di cucinare una zuppa abbondante per poi porzionarla, congelarla e avere così un po' di cene pronte), poi ho tirato fuori il portafogli e subito dopo ho chiamato mia sorella: sto facendo il cuscus, è un piatto da condividere con le persone più care, posso venire a cena da voi stasera e portarlo? Calore di famiglia per me, calore di una buona zuppa calda di pesce per loro, calore della presenza della loro Zia preferita per i nipoti ed ecco che, complice l'MTChallenge, ho trascorso un sabato sera piacevolissimo chiacchierando, giocando e ridendo di gusto con le persone che sono più vicine al mio cuore.

BRODETTO ALLA SICILIANA CON CUSCUS AL NERO DI SEPPIA



Per 6 persone:

1 grosso scorfano (circa 1,3 kg)
800 g tra nasellini, triglie di scoglio, soglioline, canocchie
1 seppia nera (con ancora, cioè, le sacche del nero)
500 g di cozze
500 g di pomodori datterini maturi
1,5 bicchieri d vino bianco secco (Corvo Terrae Dei per me)
1 cipolla dorata
2 spicchi d'aglio
1 cucchiaino di estratto di pomodoro siculo (o 1 cucchiaio colmo di triplo concentrato di pomodoro)
2 bei ciuffi di prezzemolo
1 peperoncino di Cayenna
Olio extravergine di oliva
Sale

Per il fumetto:

Le carcasse dei pesci sfilettati
3,5 l di acqua
1 cipolla dorata
1 costa di sedano
1 carota
1 foglia di alloro
1 rametto di timo
10 gambi di prezzemolo
5 grani di pepe bianco pestati
25 g di burro

Per accompagnare il brodetto:

400 g di cuscus a grana fine
Le sacche di nero della seppia
2 bustine di nero di seppia


Squamare tutti i pesci e privarli delle interiora. Sciacquarli e sfilettarli, tenendo da parte le carcasse e le teste. Eliminare le lische dai filetti aiutandosi con l'apposita pinzetta, poi coprire i filetti con pellicola trasparente e metterli in frigorifero.
Mondare delicatamente la seppia per non rompere le due sacche del nero, che vanno estratte delicatamente e riposte in frigo, insieme ai filetti di pesce. Eliminare poi l'osso, togliere le interiora, spellarla, sciacquarla e tagliarla a tocchetti. Mettere tutto in frigo con il resto del pesce.

Mondare le verdure per il fumetto e tritarle finemente: la cottura infatti sarà rapida e occorrerà estrarne tutto il sapore (ho scritto approfonditamente sul fumetto qui).
Sciacquare con molta cura tutte le carcasse di pesce eliminando il sangue, che conferirebbe al tutto un sapore amaro. Togliere le branchie dalle teste.
Sciogliere il burro in una pentola da brodo dal fondo pesante, più alta che larga, e mettervi a rosolare le carcasse di pesce fino a quando non emaneranno profumo di pesce cotto. Coprire con l'acqua freddissima e qualche cubetto di ghiaccio e portare a ebollizione, schiumando. Abbassare la fiamma, unire le verdure e gli aromi e far fremere per 30-40 minuti. Dieci minuti prima della fine della cottura aggiungere i grani d pepe bianco leggermente pestati.
Filtrare il fumetto, eliminare le verdure e, non appena le carcasse di pesce si saranno raffreddate abbastanza da poterle maneggiare senza scottarsi, estrarne tutta la polpa che vi era rimasta attaccata (specialmente con lo scorfano, ne ricaverete ancora parecchia). Tenere la polpa da parte e buttare via il resto.

Preparare il brodetto: tritare finemente la cipolla insieme alle foglie di un ciuffo di prezzemolo e al peperoncino di Cayenna sbriciolato e farla soffriggere in una pentola capiente dal fondo spesso, su fuoco dolcissimo, in quattro o cinque cucchiaiate di olio extravergine di oliva, badando che diventi traslucida senza però colorirsi. Bagnare con un bicchiere di vino bianco e alzare la fiamma per farlo evaporare.

Scaldare in una padella 1 cucchiaio di olio extravergine di oliva e uno spicchio d'aglio e buttarvi le cozze precedentemente raschiate e private le bisso. Unire mezzo bicchiere di vino bianco, incoperchiare e farle aprire. Togliere lo spicchio d'aglio e tenere da parte.

Nel frattempo lavare i pomodori datterini e tagliarli in quarti, quindi aggiungerli al soffritto e mescolare. Far cuocere per 15 minuti, poi unire 1 spicchio d'aglio tritato finemente insieme alle foglie di un altro ciuffo di prezzemolo e mescolare. Coprire con il fumetto preparato in precedenza, unirvi la seppia tagliata a pezzetti e l'estratto di pomodoro sciolto in un mestolino d'acqua, portare a ebollizione, abbassare la fiamma e far sobbollire per 10 minuti. Tuffarvi quindi i pesci sfilettati, mettendo prima lo scorfano tagliato in tranci, dopo 5 minuti i filetti dei pesci più piccoli, dopo altri 5 minuti le canocchie e dopo 5 minuti le cozze e la loro acqua. Spegnere la fiamma ed estrarre i tranci di scorfano, le cozze e le canocchie, per evitare che cuociano troppo, rovinandosi. Assaggiare e regolare di sale.

Preparare il cuscus: a differenza della Sicilia, dove si trova il cuscus da cuocere, quello presente nei supermercati del freddo Nodd è precotto. Di solito lo cuocio lo stesso al vapore nella cuscussiera prima di insaporirlo col brodo, stavolta invece ho proceduto così: versare il cuscus in una terrina capiente e condirlo con 2 o 3 cucchiai di olio extravergine di oliva, mescolando bene in modo che se ne impregni. Farlo riposare per 10 minuti.
Tenere da parte del brodo per poterlo versare nei piatti di portata al momento del servizio.
Scaldare il restante brodo, che deve essere bollente, quindi versarne circa 1/3 nel cuscus e mescolare bene. Coprire con un piatto, avvolgere in una coperta e far riposare per 10 minuti. Ripetere l'operazione versando ancora del brodo bollente nel cuscus, mescolando bene per farlo assorbire uniformemente, quindi coprendo il recipiente e facendolo riposare 10 minuti. Rompere le sacche del nero di seppia nel brodo quello rimanente (sempre bollente) e, se il colore non dovesse risultare abbastanza intenso, "aiutarlo" con 1 o 2 bustine di nero di seppia pronte. Versare il brodo nero nel cuscus, mescolare con molta cura in modo che si tinga tutto di nero, farlo riposare per altri 10 minuti.

Per la presentazione, ungere con olio extravergine di oliva i bordi interni di un tagliapasta (quadrato o rotondo, dipende dalla forma del piatto). Posizionarlo al centro di un piatto fondo e versarvi alcune cucchiaiate di cuscus, premendo bene per compattarlo. Estrarre delicatamente il tagliapasta e adagiarvi sopra parte del pesce preparato. Proseguire così fino ad aver preparato tutti i piatti, quindi versare un mestolo di brodo in ciascuno e servire.


Note della Apple Pie:

Di solito il cuscus precotto va bagnato con pari volume di brodo bollente, coperto, lasciato riposare per 10-15 minuti e poi sgranato con una forchetta. Il fatto di bagnarlo 3 volte di fila mescolandolo per fargli assorbire il brodo, gli fa assumere una consistenza più compatta - simile a quella di una polenta a grana grossa - e lo rende virtualmente impossibile da sgranare. E' su questa consistenza che ho fatto affidamento, per avere una mattonella che non si disfasse nel piatto.

I pomodorini non vanno pelati al momento di aggiungerli al soffritto di cipolla: in questo modo non si disferanno nel brodo e manterranno la forma, consentendo di avere macchie di colore nel piatto.

Regolare di sale solo dopo aver unito al brodo le cozze con la loro acqua (che di solito è estremamente salata), in modo da calibrare alla perfezione la sapidità del piatto.

Il brodo tenuto da parte va versato nei piatti subito prima di servire, per evitare che il nero di seppia rilasciato dal cuscus lo tinga.

sabato 5 marzo 2016

Pansoti con la salsa di noci per il Calendario del cibo italiano


Ogni volta che vado a Genova e ho l'occasione di entrare in un ristorante, finisco immancabilmente per ordinarli. Il rituale è sempre lo stesso: apro la carta, la leggo con cura e attenzione, valuto le varie proposte, penso che vorrei assaggiarle tutte, ma al momento di ordinare la mia scelta finisce invariabilmente sui pansoti al sugo di noci.
Sarà che adoro la maggiorana, sarà per il sapore unico del preboggiòn, l'insieme di erbette selvatiche che ne costituiscono il ripieno e che non trovo a Milano, fatto sta che il mio piatto genovese preferito in assoluto è proprio questo.

Oggi il Calendario del cibo Italiano celebra la Giornata Nazionale dei Pansoti al sugo di noci: potevo farmi sfuggire l'occasione di prepararli? Certo che no!!! All'assenza di preboggiòn si può ovviare sostituendo le erbette di campo con spinaci e bietoline (se si ha la fortuna di trovare la borraggine poi, è il massimo); la prescinseua o cagliata genovese, può essere sostituita mischiando in parti uguali yogurt greco e panna fresca.
Insomma, anche usando un surrogato delle verdure originali e del formaggio originale, si possono preparare dei pansoti dignitosi. Sono stata felicissima di averci provato perché al primo morso ho avuto un'esperienza proustiana e mi sono ritrovata proiettata con la memoria all'ultima volta che, seduta attorno a un tavolo con i miei carissimi amici, li ho gustati.

E poi stamattina per prima cosa mi sono andata a leggere il magnifico articolo di Monica su questo antico piatto ligure, e mi è tornata la voglia di rifarli!!!

domenica 31 gennaio 2016

Giornata Nazionale dello Stufato alla Sangiovannese


Oggi il Calendario del Cibo Italiano celebra la Giornata Nazionale dello Stufato alla Sangiovannese.

Ho avuto il piacere e l'onore di esserne Ambasciatrice, e vi invito a cliccare sul link sopra per leggere articolo di presentazione e ricetta.

Avevo già preparato una volta questo profumatissimo stufato, ma la ricetta che presento oggi sul sito AIFB è diversa e, spero, più aderente a quella tradizionale.

Ringrazio il Direttivo dell'Associazione Nazionale Foodblogger per aver lanciato questo splendido calendario e per avermi permesso di partecipare attivamente alla sua realizzazione e diffusione.

Ringrazio altresì i Blogger che hanno dato il loro contributo alla Giornata Nazionale, pubblicando la loro versione della ricetta.

Buona lettura e buon appetito!

venerdì 22 gennaio 2016

Bobba - Suprema di fave secche


"Quando gli dei vogliono punirci, esaudiscono le nostre preghiere", diceva Oscar Wilde.
"Quando la Vitto vuole premiarci, esaudisce le nostre preghiere", rispondo io.

Sì, perché è da quando Vittoria ha vinto l'MTChallenge n. 52 lo scorso novembre, che la Community la implora: zuppe, zuppe, vogliamo le zuppe!!! E zuppe sono state, anzi Zuppe con la Z maiuscola: perché se nell'immaginario collettivo la zuppa è un piatto noioso, tanto da dar vita a detti come "è la solita zuppa", "se non è zuppa è pan bagnato" e via dicendo, la nostra cucina in realtà (e pure quella di altri Paesi, come testimonia il tema del mese di questo MTC) vanta una grande tradizione di saporite zuppe, tutte degne di essere presenti nella carta dei ristoranti (e infatti lo sono).

La mia seconda proposta è una ricetta di tradizione, sì, ma non la mia: è una ricetta Tabarchina, tipica di Carloforte. Nella prima metà del 1500, un gruppo di corallatori genovesi ottenne infatti dall'Imperatore Carlo V la concessione di pesca nell'isola di Tabarca, al largo della Tunisia. Vi si insediarono e ci rimasero fino al 1770, ma già nel 1738 ci fu il primo esodo della comunità tabarchina, che si stabilì nell'isola di San Pietro, in Sardegna. Appena in tempo: nel 1740 i tunisini occuparono Tabarca e ridussero in schiavitù i coloni rimasti, che furono riscattati solo nel 1770 e poterono stabilirsi sull'isola di Sant'Antioco, sempre in Sardegna. Nel corso dei secoli però, le comunità tabarchine mantennero sempre vivi i rapporti con Genova, e infatti una caratteristica curiosa delle città di Calasetta e Carloforte è il fatto che dialetto, cucina e cultura sono molto simili a quelle genovesi.

La Bobba, o Suprema di fave secche, è una ricetta tabarchina, originata a Carloforte.

Ho trovato qui la ricetta scritta in dialetto carlofortino, tanto simile a quello genovese, e ve la trascrivo:

A bobba

A l'è 'na meneshtra de fòve secche.
Pè 'na nötte mettè a bagnu inté l'ègua abbundante, 
mezu kilò de föve a shciappe sensa shcorse.

U giurnu doppu, shcuèai ben, mettèai inté 'na pignatta 
pin-a dègua e féai cöje a fögu lentu.

A maité cuttüa azzunzèghe duì shpighi d'aggiu e a piajài:
in busciucchettu, du sellau e de ravanèe taggé suttì, suttì.
Cundì quindi cun öiu d'oviva.
Rumescè ben e purtè a cuttüa.

Quande a menèshtra a l'è bella cremusa, ma nu densa, 
servîa cuà pashta oppüre cun fettin-e de pan brishcau.

La ricetta che ho seguito io però è quella riportata da Sergio Rossi nel suo libro La cucina dei Tabarchini edito da Sagep. A sua volta, Sergio l'ha avuta dal ristorante Da Andrea, Osteria della tonnara di Carloforte.

Il nome non è né bello, né evocativo e confesso di essere stata tentata di invertire i due nomi e intitolare il post Suprema di fave secche (Bobba). Sarebbe stato vigliacco però, e un tradimento della tradizione, e allora... io la chiamo Bobba e soprattutto me la mangio. E voi?

giovedì 14 gennaio 2016

Farinata al limone e rosmarino


Oggi il Calendario del cibo italiano celebra la giornata nazionale della farinata.
La farinata è una specialità ligure a base di farina di ceci, ma è diffusa un po' ovunque in Italia, con qualche variante di procedimento, e prende via via nomi diversi: in Toscana si chiama cecina ed è profumata con il rosmarino, a Livorno prende il nome di torta e viene venduta dai tortai: ancor oggi è uso entrare dal tortaio e chiedere un "cinque e cinque", cioè un panino ripieno di torta di ceci. L'espressione richiama l'uso antico di comperare cinque soldi di pane e cinque di torta.
In Sicilia si prepara una polenta di ceci cuocendola sul fornello, poi la si versa in una teglia e la si fa raffreddare completamente; a questo punto si taglia a quadrotti, che vengono fritti in olio profondo, salati e spolverati di pepe: abbiamo così le panelle, che si gustano da sole o come companatico, esattamente come accade a Livorno.
Se volete sapere qualcosa di più sull'affascinante storia di questo piatto, andate a leggere il post di Sara sul sito AIFB: ne vale davvero la pena!

La farinata si cuoce in un'apposita teglia di rame stagnato, detta testo. Se non la possedete potete ugualmente preparare un'ottima farinata, usando la leccarda del forno o una teglia normale. Io ho la fortuna di possederne una, regalata a mia madre dalla sua consuocera e passata a me, causa inutilizzo nella casa paterna. :-)

La farinata classica prevede il solo uso di farina di ceci, acqua, sale, pepe e un ottimo olio extravergine di oliva. Ne esistono però diverse varianti: dalla già citata cecina al rosmarino alla farinata di Oneglia con i cipollotti; c'è anche chi vi unisce i bianchetti, quando è stagione.

Io per celebrarne la Giornata Nazionale ho voluto studiare una variante: al classico rosmarino ho aggiunto la scorza grattugiata di mezzo limone. Il motivo è molto semplice: la farinata mi piace moltissimo, ma mi stucca facilmente. Ho pensato che la nota acidula del limone potesse pulire la bocca, e non ho sbagliato: ne è uscita la miglior farinata che abbia preparato finora.