venerdì 17 luglio 2020

Pesto genovese classico e variante eretica


L'erba aromatica che preferisco in assoluto è senz'altro il basilico, con il suo profumo penetrante che sa di primavera. Lo adoro in tutte le salse, 😏è il caso di dirlo: ne ho estratto la clorofilla e l'essenza per un olio aromatico, l'ho usato nei dolci (anche qui e qui), nelle zuppe, nei risottinella marmellata, nella gelatina, nel favoloso pesto al cioccolato e basilico di Paul A. Young e in un milione di altre preparazioni. E naturalmente, in primavera-estate preparo molto spesso lui, il pesto genovese, un condimento superbo che fa di un semplice piatto di pasta, un piatto da re. 

Mi sono accorta solo adesso di non averne mai pubblicato la ricetta: rimedio subito, perché è davvero un peccato non averla sul blog. La ricetta è quella di un caro amico genovese DOC, Federico Olimpo del blog Il Preboggion: la seguo da anni con grande soddisfazione. Fedo ha inserito le dosi per 1 kg di pesto mentre io le ho ridotte a 100 g, perché faccio fatica a procurarmi 350 g di foglie di basilico. 

Gli accorgimenti per fare il pesto sono pochi, ma fondamentali. Fedo sottolinea che il basilico è importantissimo: dovrebbe essere quello di Pra, raccolto quando le foglie sono piccole, tenere e non più di sei. La pianta poi va estirpata, radici comprese, altrimenti le foglie che ricresceranno saranno dure e dal sapore di menta. Io naturalmente li disattendo tutti, molto puntualmente: uso tutte le foglie di basilico che mi capitano sotto mano, solitamente quelle più grandi, e pazienza se sanno di menta. Mi guardo bene dall'estirpare le piante, che coltivo in vaso con grande cura, e quando in autunno mi muoiono mi sento in lutto: significa che la bella stagione è terminata e che mi attendono i lunghi mesi invernali, bui e freddi. Il pesto teme anche il calore: non solo non va mai cotto, ma anche nel prepararlo occorre fare molta attenzione a non surriscaldarlo. Per questo è preferibile prepararlo nel mortaio (ci vuole un quarto d'ora circa), ma se si ha fretta o non si dispone di un buon mortaio, va bene anche il frullatore a immersione. Meglio in questo caso tenere la parte con le lame in frigorifero fino al momento di fare il pesto, e frullare il più brevemente possibile, per evitare che si surriscaldi e si ossidi. Last but not least, mai allungare il pesto genovese con formaggi molli come la ricotta: è una salsa dal gusto delicato, specialmente se non si esagera con l'aglio, perché diluirne il sapore?   

Il pesto genovese è una religione insomma, ma come tutte le religioni ha i suoi eretici e io, ahimè, sono tra questi: talebana con le preparazioni siciliane, mi prendo delle licenze con quelle degli altri e il pesto genovese non fa eccezione. A dire il vero la mia variante eretica (che preparo solo ogni tanto) rimane entro i confini dei profumi tradizionali liguri: agli ingredienti classici aggiungo le foglie di un rametto di maggiorana, che regala al pesto una nota aromatica particolare a mio avviso deliziosa. Tutto qui, ma se avete voglia di provarla sappiatemi dire. A casa mia piace veramente tanto. 😇

lunedì 13 luglio 2020

Il Red Rice dei Gullah Geecee per MTC Taste the World


L'MTChallenge da questo mese di luglio 2020 tocca nuove vette, diventando MTC Taste the World. Sembra un semplice cambio di nome, dal momento che nel corso degli ultimi 10 anni ci siamo sfidati su ogni genere di piatti, inclusi quelli stranieri, ma non è così: MTC Taste the World è un progetto culturale volto a valorizzare un settore molto particolare: la cucina delle minoranze, come spiegato magistralmente da Alessandra nel post che ho linkato sopra e che vi invito caldamente a leggere. La nuova sfida consta di due fasi: la prima, in cui siamo tenuti a preparare il piatto seguendo la ricetta originale e cercando di comprendere il retroterra culturale che lo ha generato, e la seconda, in cui lo reinterpretiamo in modo creativo, ma rispettando la sua matrice originale, senza quindi snaturarlo.

Alessandra, nell'illustrarci la sua idea, ha scritto sul nostro gruppo Facebook: "[...] l'illuminazione...  mi è venuta leggendo una rassegna stampa sul Black Lives Matter. Perché invece di buttar giù statue e cancellare la storia - brutta o bella che sia - non ci mettiamo a studiarla, una buona volta, mi son detta. Perché, invece di continuare a insistere in modo esclusivo sui nostri primati (Italians do it, better, la Carbonara di mia mamma, il pesto solo genovese e via dicendo) non proviamo a dare un'occhiata a quello che abbiamo intorno, per aprirci ad un dialogo di sostanza, che abbia un senso, una consapevolezza? [...] l'idea è proprio quella di presentare una minoranza ogni mese e chiedere a chiunque voglia partecipare di rifare la ricetta che abbiamo scelto, di solito quella più simbolica e più identitaria, e rifarla UGUALE all'originale. In segno di rispetto, di voglia di conoscere non con la superiorità che da Italiani ci arroghiamo, in fatto di cibo, ma con l'umiltà di chi vuole imparare, nel segno del dialogo, in modo paritario.
Questo mese iniziamo con i Gullah-Geecee, la comunità afro-americana degli Stati Uniti del Sud che ha introdotto il riso nei futuri Stati Uniti. Lo ha fatto al tempo della schiavitù e proprio per questo, a dispetto della sua straordinaria importanza, non hai mai trovato nei libri di storia lo spazio che avrebbe meritato.
Ci proviamo noi a farli conoscere, in questo numero zero, raccontandone la storia e le storie e condividendo la ricetta del loro riso rosso [...]."


Per raccontarvi la ricetta di oggi quindi, è necessario partire dal Popolo che l'ha creata, i Gullah-Geechee. Innanzi tutto vi invito a leggere l'articolo scritto da Alessandra in proposito, esauriente quanto basta a invogliare a saperne di più. In breve, i Gullah Geechee sono i diretti discendenti degli schiavi della costa orientale degli Stati del Sud, il cosiddetto Lowcountry, che comprende Georgia, Florida e South Carolina. La regione era molto paludosa e quindi adattissima alla coltivazione del riso, che proprio questi schiavi introducono negli USA: documentazioni storiche attestano che gli schiavi venivano venduti insieme a un sacco di riso, che avevano in dotazione e che erano abilissimi a coltivare nella madrepatria, l'Africa occidentale e centrale. 
L'insalubrità della regione ha fatto sì che i proprietari terrieri vivessero più in città che nella piantagione, favorendo quindi il mantenimento della cultura degli schiavi che coltivavano i loro terreni. E' a questo che si deve la creazione della lingua creola, con cui gli schiavi parlavano tra di loro, e il mantenimento della maggior parte delle loro tradizioni, su cui si sono innestate la lingua e le tradizioni degli Stati Uniti del Sud. I Gullah Geechee hanno da sempre mantenuto uno strettisimo legame con la madre patria, le cui tracce sono a tutt'oggi molto evidenti, tanto che sono considerati la più africana fra le comunità afroamericane degli Stati Uniti.

L'orgoglio con cui questa comunità ha trasmesso la sua cultura da una generazione all'altra, ne ha fatto quindi un gruppo etnico a parte, con lo sguardo avanti e pronto a progredire e a migliorare la propria condizione: non a caso, la prima scuola per schiavi liberati, la Penn School, fu fondata nel 1862, nel cuore della regione abitata dai Gullah, di cui loro furono i primi scolari. Se si pensa che la schiavitù fu abolita tra il 1863 e il 1865, ci si rende conto di quanto avanti fosse questa comunità sulla strada dell'emancipazione.

Oggigiorno in tutto il territorio del Lowcountry si tengono ogni anno i Gullah Festival, che celebrano la cultura Gullah in tutte le sue declinazioni, dalla musica alle danze, dalla manifattura dei loro canestri artistici ad altre forme di arte. A fare da fil rouge, i piatti tipici di questa cultura, tra cui spicca l'iconico e omnipresente Red Rice, quello che abbiamo scelto di cucinare per questa edizione 0 di MTC Taste The World. E' un piatto semplice ma buonissimo, che unisce il riso - di tradizione Gullah - e il pomodoro, tipicamente americano, in una pietanza che è fusione, accettazione  e riscatto di un Popolo fiero che sa di dialogare alla pari con gli altri Popoli con cui viene in contatto. 

lunedì 8 giugno 2020

Spaccatini


La pandemia di Covid-19 e il conseguente lockdown della popolazione, hanno avuto effetti diversi nei diversi Paesi. Se da noi la reazione è stata quella di indurre moltissimi a panificare come se non ci fosse un domani, rendendo introvabili farina e soprattutto lievito di birra, nel Regno Unito a essere introvabile è stata, curiosamente, la carta igienica. Meglio avere le mani in pasta che in c*lo ho pensato quando ho sentito la notizia, e mi sono ritenuta fortunata perché poco prima che i fatti di Codogno venissero pubblicizzati avevo acquistato del lievito di birra, e usandone 5 g alla volta avevo la possibilità di panificare quanto volevo... se solo avessi trovato la farina adatta.

Il libro a cui ho attinto di più è stato The Book of Buns di Jane Mason, il cui acquisto mi era stato caldamente consigliato da Alessandra alcuni anni fa, ma che da allora era rimasto in libreria. E la ricetta che mi ha più incuriosita è stata proprio quella di questi panini italiani, gli spaccatini. La ricetta mi intrigava non tanto e non solo perché prevedeva la preparazione di una biga e l'uso di pochissimo lievito, quanto perché non li avevo mai sentiti nominare in vita mia.

Consapevole che l'esistenza degli spaccatini prescindesse dalla mia conoscenza dei medesimi, ho cominciato a fare un po' di ricerche in rete per vedere da quale Regione venissero, ma niente: il massimo che ho trovato, è stata una marca di grissini chiamata Spaccatini. Curiosamente invece, nei siti americani gli spaccatini erano conosciuti, e tutti unanimemente dichiarati tipici panini italiani. Ho allora pensato che fosse un formato di pane che gli immigrati Italiani avevano portato nel Nuovo Mondo, e che in qualche modo avevano trovato grande diffusione in America, decadendo invece qui da noi. Mi ero pressoché convinta che questa fosse l'ipotesi più corretta quando sono approdata su questo sito, dove dopo una lunga introduzione sui panini imbottiti italiani e sui pani italiani in generali, l'autore si è focalizzato sugli spaccatini, "a crusty but soft chewy roll from Lugano" (un panino dalla crosta croccante e dalla mollica morbida, di Lugano). 😵 

'Tacci loro. 
🙈🙉🙊

venerdì 5 giugno 2020

Banana Bread tostato con burro, Tahina e miele


Confesso che non sono tipo da Banana Bread, e non perché non mi piacciano le banane, tutt'altro: il fatto è che mi piacciono così tanto, che è veramente difficile che giungano a quello stadio di maturazione (quasi nere) che porta la casalinga attenta a scegliere se buttarle nell'umido o inserirle in una preparazione dolce. Per questo motivo, negli anni ho guardato tantissimi Banana Bread nel web, senza essere mai tentata di farne nessuno.

La quarantena appena trascorsa invece ha avuto su di me diversi strani effetti, uno dei quali è stato quello di trovarmi con tre banane molto mature che non mi invogliavano affatto a mangiarle. 
Gelato furbo o Banana Bread? mi sono chiesta. Le temperature erano ancora troppo basse per il gelato, e inoltre avevo il freezer strapieno; la scelta più ovvia quindi è stato il Banana Bread, ma non uno qualsiasi: ricordavo di avere intravisto una ricetta di Banana Bread in uno dei libri di Ottolenghi (li ho quasi tutti), non mi restava che tirarli fuori e cercare... ed eccolo lì!!! Leggo la ricetta e mi rendo conto che l'operazione più lunga è quella di schiacciare le noci, seguita dalla preparazione di tutti gli ingredienti. Per il resto si fa in un attimo, il che è un vantaggio non trascurabile.

Ottolenghi tra l'altro non si limita a farci preparare un ottimo Banana Bread: lui porta la goduria al livello successivo, facendocene tostare le fette e spalmandole con burro, Tahina e miele: un'apoteosi (o, come direbbe Alessandra, una gran porcata)!!! 😂

lunedì 1 giugno 2020

Panini da hamburger alla birra rossa


I panini da hamburger hanno sicuramente il loro perché: morbidissimi, semidolci, spesso coperti da quei golosissimi semini di sesamo, sono l'ideale per accogliere un hamburger e le sue verdure e salse di accompagnamento, per un pranzo veloce all'americana che ogni tanto a me personalmente non dispiace. 

Negli anni ho provato diverse ricette di panini da burger, senza tuttavia mai rimanere pienamente soddisfatta, fino a quando non sono inciampata nella ricetta di Justin Gellatly, pubblicata nel suo Baking School che avevamo recensito su Starbooks. Certo, i suoi panini sono decisamente più dolci per i miei gusti personali, ma quando ho addentato il primo mi sono detta: ecco, ci siamo.

Per i panini che vi presento oggi sono partita proprio dalla sua ricetta, ma con qualche piccola variante: innanzi tutto ho diminuito drasticamente il lievito, portandolo dai 22 g iniziali a soli 5 (+ altri 5 se si ha fretta, ma io quando panifico cerco di non averne mai); in secondo luogo ho quasi dimezzato lo zucchero, portandolo a 25 g anziché i 44 previsti dalla ricetta. E, last but not least, ho sostituito tutta l'acqua con della birra rossa: il fatto che la ricetta ne prevedesse esattamente 33 ml, il contenuto di una normale bottiglia di birra, mi ha sicuramente semplificato la vita, ma confesso di averne stappato una seconda per sorseggiarla, mentre aspettavo che il lievito e il forno compissero la loro magia. 😎

Il risultato sono dei panini morbidi, semidolci, cui la birra dona un retrogusto maltato gradevolissimo. Se volete provarli anche voi, ecco la ricetta: